Digital Divide: lo 0 /1 è una metafora della nuova ingiustizia digitale?

La giustizia implica sempre il riconoscimento dell’altro, dei suoi meriti e delle sue necessità; al contrario l’ingiustizia è rimozione dell’alterità, del non-io. Le disuguaglianze saranno colmate a patto che ogni soggetto escluso compaia al banco delle trattative, così da mostrare il proprio volto ed essere riconosciuto. Finché verrà proposto un solo ideale di giustizia, esso sarà ingiusto. Quando ve ne saranno diversi, e tutti con lo stesso potere contrattuale, solo allora si parlerà di precondizione giusta alla giustizia.

Il web, in qualità di mezzo di comunicazione e di partecipazione, potrebbe essere il luogo preposto a mediare le varie richieste. È paradossale, dunque, che rappresenti una nuova fonte di ingiustizia. Spesso, le divisioni che crea si inseriscono nel solco di quelle antiche, andandole a rinforzare. L’ingiustizia è una ferita costantemente incisa da strumenti diversi, a cui non viene dato modo di guarire. Nel caso del web 2.0, il digital divide ha una natura particolare. Poiché è un ambiente nel quale ogni individuo può divulgare le sue idee e dove, soprattutto, queste idee sono raggiungibili potenzialmente da chiunque, le richieste delle minoranze potrebbero ottenere maggiore visibilità. Insomma, l’aratro che segna il pomerium è, in questo caso, un tratto di evidenziatore. Le divisioni sono rinforzate, sì, ma sono anche meno ignorabili. In altre circostanze le proteste di Hong Kong sarebbero rimaste inascoltate, soffocate dalla distanza e dall’isolazionismo cinese, oggi, invece, i manifestanti hanno saputo diffondere le proprie istanze, sfruttando, per esempio, le piattaforme di gaming online, come il noto Animal Crossing: New Horizons[1]. Anche le notizie relative al “Black lives matter” sono state condivise sfruttando l’anonimato dei mini-siti come Carrd o dei link di Google Docs. Attraverso tali sistemi è stato possibile diffondere video, notizie e appuntamenti per le proteste, bypassando eventuali censure.

A proposito del movimento #BLM, sono proprio i social network ad aver permesso che l’omicidio di George Floyd diventasse un caso internazionale. Il video ha oltrepassato i confini americani, richiamando l’attenzione di altri Paesi sufficientemente lontani (e soprattutto in competizione) per condannare il razzismo che tuttora permea la polizia statunitense e le classi dominanti. Non si tratta ancora di un potere concesso alla pubblica opinione, in grado di controllare ciò che avviene nella torre del Panopticon.[2] Bisogna ricordarci che qualora ci è possibile osservare da un varco, in quel momento, anche noi siamo osservabili. Infatti la polizia è da tempo che sfrutta le tecnologie digitali per controllare l’ordine pubblico. In Cina, il sistema di riconoscimento Skynet è addestrato per compiere arresti preventivi, identificando l’aggressività sui volti. Il governo mandarino si sente giustificato a condurre nei campi di rieducazione tutti quegli individui che l’Intelligenza Artificiale giudica pericolosi. Tale sistema sta contribuendo a portare avanti un vero e proprio crimine etnico, con violenze e reclusioni ingiustificate nei confronti della popolazione degli Uiguri, minoranza musulmana del nord-ovest della Cina. Anche negli USA sono largamente impiegati strumenti biometrici per identificare i sospetti e Big Data per prevenire i crimini. Tuttavia, grazie anche alle proteste a favore degli afroamericani, gli studi che dimostravano la non accuratezza di tali sistemi sono entrati nell’agenda politica, inducendo, così, IBM e Microsoft a bloccare le produzione di tali dispositivi per il riconoscimento facciale, dal momento in cui sono risultati non solo inattendibili, ma razzisti e discriminatori nei confronti delle solite minoranze: donne e individui dalla pelle scura. Inoltre, a seconda del training set, cioè a seconda di quali informazioni vengono usate per addestrare l’Intelligenza Artificiale, l‘algoritmo “eredita” gli stessi bias e pregiudizi che condizionano il pensiero umano: “garbage in, garbage out”.

Siccome siamo una società tecnocratica, siamo portati pericolosamente a considerare l’output delle macchine come attendibile, perché non viziato dalla soggettività umana. Tendiamo ad accettare e a sovrastimare la testimonianza del deep learning come se fosse scevra dagli errori propri dell’uomo. Eppure anche gli algoritmi sono “umani, troppo umani”, insomma, si tratta di oggetti costruiti “con” e “per” la società; un tipo di “documenti” in cui si coagula una memoria storicamente situata[3].

Proprio perché la rete ha il potenziale per essere uno strumento di riscatto e di presa di coscienza, l’esclusione da essa assume i contorni di strategia intenzionale dei gruppi di potere. Lo spazio online, soprattutto nel Terzo Mondo, diventa un ulteriore luogo di discriminazione per il genere femminile, una fonte di isolamento. Grazie a internet le donne potrebbero informarsi, studiare, fare esperienze e iniziare attività online, superando le barriere tradizionalmente imposte dalle società. Non pensiamo che nel mondo occidentale la situazione sia più rosea: la percentuale di donne impiegate nel settore informatico è preoccupante.  Il web è, pertanto, un ulteriore regno maschilista. Un design progettato da maschi non può che incorporare i pregiudizi del genere. La conseguenza è che le “affordances” che i dispositivi suggeriscono tenderanno a rinforzare la società patriarcale. Anche gli algoritmi si nutriranno di dati costruiti sul solo modello dell’uomo, appropriandosi di pratiche di esclusione e ingiustizia. La mancanza di donne e di ogni altra minoranza riduce, inoltre, la “tecno-diversità” delle proposte digitali, con conseguenze nefaste per lo stesso sviluppo.

Siamo lontani dall’utopia che motivava gli inventori del WWW. Tim Berners-Lee e gli altri intendevano creare uno spazio libero e gratuito, in cui chiunque potesse beneficiare di internet, contribuendo attivamente nel nuovo medium. L’etica che guidava le prime esperienze sul web viene definita “freelosophy”. Alla base c’era l’idea che l’informazione dovesse essere libera, che i software andassero rilasciati con licenza open source e che la rete fosse un’esperienza di contro-cultura, in grado di dare voce alle minoranze, così che si creasse una comunità più giusta e consapevole. Nel Sessantotto i movimenti americani non avevano colore politico come invece in Italia, ma riguardavano battaglie per i diritti civili. Furono gli attivisti a fare uso dei protocolli di internet TCP\IP, trasformando la rete in uno spazio di comunicazione per le sub-culture. Oggi esistono movimenti che fanno proprio questo indirizzo di azione, tra cui l’hacktivism o i critical makers, ma rappresentano solo delle minoranze. Essi chiedono inclusione, trasparenza, apertura, open data, leggi per la privacy e per la proprietà dei dati, in opposizione critica al monopolio delle Big Tech e al dataismo che permea la società della comunicazione e dell’informazione. Anche alla luce delle evidenze emerse durante la pandemia, è palese non ci sia un’uguale distribuzione dei mezzi e soprattutto dei saperi intorno al digitale. Lo Stato può compensare l’ingiustizia distribuendo dispositivi agli studenti svantaggiati, perché possano esercitare il diritto e dovere di istruzione, ma è sufficiente? In realtà più che la carenza dei mezzi, è stata la mancanza di conoscenza, propria e dei componenti della famiglia, ad aver generato un nuovo gap sociale. I bambini benestanti, quelli che hanno potuto usufruire di uno scaffolding da parte di familiari più colti e già inseriti nella società dell’informazione, hanno preso parte alla didattica in maniera proficua, mentre i compagni svantaggiati hanno amplificato il loro svantaggio. È stata riedificata una scuola classista? Per rimediare, servirebbe una reale formazione digitale.

Come non basta saper leggere e scrivere per comprendere un testo, allo stesso modo non è sufficiente saper usare un motore di ricerca per trovare l’informazione più pertinente. La digital literacy non riguarda il saper-fare tecnico, ma il saper-pensare critico. È la differenza che sussiste tra un elaboratore che computa simboli linguistici, un bot, e un essere umano che comprende il linguaggio, spingendosi soprattutto nel “non-detto”. Agli utilizzatori, in effetti, manca la consapevolezza critica dei processi riguardanti il digitale, al di là dell’uso immediato dei vari software. Per essere cittadini consapevoli è necessario rendersi conto dell’impatto che ogni tecnologia ha nel sistema complessivo, sapendosi districare a livelli multi-scalari di indagine, dalla realtà locale all’intero ecosistema.

Fino ad ora l’approccio non è stato etico, equo e sostenibile. La tecnologia ha creato problemi ecologici e nuove guerre per lo sfruttamento delle risorse, basti pensare alle stragi legate alle miniere di Coltan nel Congo. Il digitale mette in scena, poi, un ulteriore circolo vizioso: gli algoritmi potrebbero aiutarci a gestire meglio l’energia necessaria a mantenere l’interrealtà, ma per farlo hanno prima bisogno di energia (e tanta). In realtà, solo costruendo una società democratica, aperta e consapevole, sarà possibile curare i mali che di volta in volta si presenteranno. Salvaguardare ambiente e società è salvare le stesse ICT, la cui esistenza dipende da entrambi i poli del dualismo. Il web, allora, è uno strumento essenzialmente pro-sociale, se, per esistere, ha bisogno che tutti gli utenti si trasformino in individui autenticamente responsabili. Pertanto le divisioni che genera ledono il suo stesso essere come una neoplasia che, replicandosi, distrugge il suo ospite e, di conseguenza, anche se stessa.

 

 

[1]Cfr. Lorenza Saettone, Attivismo e protesta nel gaming online contro il razzismo: quali effetti possono produrre, Agenda Digitale, 2020, Url: https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/attivismo-e-protesta-nel-gaming-online-contro-il-razzismo-quali-effetti-possono-produrre/.

[2]Cfr. Lorenza Saettone, Video e social, arma a doppio taglio nella lotta per i diritti civili, Agenda Digitale, 2020, Url: https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/video-e-social-arma-a-doppio-taglio-nella-lotta-per-i-diritti-civili/.

[3]Cfr, Maurizio Ferraris, Dall’infosfera alla biosfera, passando per il virus: ecco cos’è (davvero) il web, Agenda Digitale, 2020, Url: https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/dallinfosfera-alla-biosfera-passando-per-il-virus-ecco-cose-davvero-il-web/.

 

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